L’ex Ambasciata USA a Teheran Ovvero La C.I.A. nel cuore del Medio Oriente negli anni ’70
Se vi fermate alle poche righe che gli vengono dedicate dalle varie guide turistiche, l’ Ex Ambasciata USA di Teheran sembra essere un posto al quale bighellonare attorno, facendo foto ai vari murales presenti e poco più. Facciamo finta che invece vi fermiate davanti all’entrata e leggiate un piccolo cartello sul quale vi è scritto “Museo Antropologico”. Questo potrebbe spiazzarvi, perché effettivamente questo luogo è rimasto chiuso per decenni, ma dal Gennaio 2017 dietro al pagamento di 200.000 Rial (non spaventatevi, al cambio attuale sono circa 4 euro) potrete visitare uno dei luoghi simbolo della storia geopolitica recente.
Parliamo un attimo di storia.
4 Novembre 1979, 6.30 del mattino.
Circa 300 studenti universitari, che si fanno chiamare “Muslim student followers of the Imam’s line” confluiscono in fronte all’Ambasciata USA di Teheran, manifestando per ottenere l’estradizione di Shah Mohammad Reza Pahlavi, ultimo Scià di Persia che aveva trovato rifugio nel paese nordamericano dopo aver volutamente abbandonato l’Iran per evitare inutili scontri tra i suoi sostenitori e i “rivoluzionari” fedeli all’Ayatollah Khomeini.
Secondo gli studenti l’ex regnante si è macchiato di crimini contro il popolo iraniano e deve tornare in patria, seppur oramai malato terminale, per sostenere un “giusto” processo.
In realtà Pahlavi (che va detto, fu messo sul trono di Persia dai governi USA e britannico che sentivano minacciato il proprio controllo sulle riserve petrolifiche iraniane) , era stato protagonista di una serie di leggi riformiste piuttosto importanti tra le quali il suffragio universale, il diritto al divorzio e un incentivo all’alfalbetizzazione. La qual cosa non andava certo a braccetto con l’interesse del ceto religioso, che si vide oltretutto sottrarre il controllo su grandi latifondi che vennero ridistribuiti tra i contadini. Il processo di modernizzazione era stato così tanto esasperato, che negli anni ‘70 a Tehran si potevano trovare persino dei cinema a luci rosse in piena città! Ma questa è un’altra storia, evitiamo di divagare.
L’idea iniziale dei giovani è di entrare nel giardino antistante il compound americano e organizzare un sit in di protesta fino a che le forze di polizia non interverranno per allontanarli. Quando però realizzano che i soldati americani di guardia non apriranno il fuoco contro di loro e che centinaia e centinaia di persone si stanno riversando nelle strade per sostenerli, si trovano quasi costretti ad un’azione clamorosa.
Scardinate le prime inferiate al piano inferiore si riversano su per le scale ma si ritrovano di fronte ad una porta blindata che nonostante tutti i loro sforzi non sono in grado di aprire. Dopo circa tre ore di trattative e rassicurazioni, i dipendenti dell’ambasciata aprono ai loro futuri carcerieri.
Di 66 tra impiegati e militari presenti 14 furono rilasciati in breve tempo, mentre altri 52 rimasero ostaggi per 444 giorni. Quattrocentoquarantaquattro. L’amministrazione Carter cercò di organizzare operazioni di recupero: la più famosa, denominata “Operation Eagle Claw”, fu un completo disastro: diversi elicotteri in silenzio radio entrarono nello spazio aereo iraniano ma incontrarono quasi subito una tempesta di sabbia che comportò tra le altre cose la morte di otto militari statunitensi e l’annullamento della missione stessa. Khomeini si disse sicuro che l’insuccesso degli invasori era dato dal volere di Dio che difendeva i confini persiani e ciò comportò un aumento vertiginoso della sua popolarità. Un rotore di uno degli elicotteri abbandonati fa ora bella mostra di se nel giardino antistante l’entrata dell’ambasciata.
L’Iran fu inoltre posto sotto embargo commerciale e gli asset persiani negli Stati Uniti furono congelati, ma tutto ciò risultò inutile e bisognò aspettare il 19 Gennaio 1981 per la formulazione del famoso “Accordo di Algeri: in soldoni fu deciso il rilascio immediato degli ostaggi, lo scongelamento degli assets iraniani e la promessa che gli Stati Uniti d’America non sarebbero mai più intervenuti, direttamente o meno, negli affari interni iraniani.
Il 20 Gennaio gli ostaggi furono liberati e dopo dieci giorni, dovuti a scali intermedi e controlli medici, finalmente tornarono a casa.
La storia è trattata anche nel film “Argo” che racconta, con qualche licenza cinematografica e ispirandosi al libro Master of Disguise: My Secret Life in the CIA dell’ex agente Tony Mendez, la storia vera del salvataggio da parte della C.I.A. di sei funzionari americani che erano riusciti a trovare rifugio nell’Ambasciata canadese pochi attimi prima dell’assalto degli studenti iraniani.
Data questa lunghissima premessa storica, potete immaginare che nel momento in cui ho varcato i cancelli del “museo”, mi sono ritrovato a vivere emozioni abbastanza contrastanti: la sensazione di essere in un luogo storico ma allo stesso modo molto “vicino” nella linea temporale mi ha quasi fatto sperare di riuscire a calarmi nei panni di uno dei protagonisti di quell’evento: rabbia da una parte e paura ed incredulità dall’altra, cosa hanno davvero provato quella mattina?
Entrato dalla porta principale, ho trovato di fronte a me le rampe di scale che portano al primo piano, sede del museo e una volta il vero cuore pulsante dell’ambasciata. Le pareti sono decorate con immagini che ritraggono i simboli del male assoluto: la Statua della Libertà, caricature di soldati israeliani e persino un richiamo all’attentato alle Torri Gemelle. Rimango abbastanza stupito viste anche le dichiarazioni che ho raccolto in strada, di persone che contro gli Stati Uniti non hanno assolutamente nulla e vorrebbero solo vivere in pace, ma credo che chi ha commissionato queste immagini non sia propriamente sulla stessa linea di azione moderata.
Sta di fatto che conclusa la scalinata mi sono trovato di fronte ad una porta blindata davvero massiccia, quella dietro la quale i dipendenti dell’ambasciata si erano barricati per tre ore (tenete in mente questo particolare), prima di cedere il passo agli studenti iraniani.Una guida sorridente, dall’inglese claudicante ma comprensibile mi si è presentato offrendomi una spiegazione gratuita sulla storia degli oggetti che avrei visto di lì a poco. Proposta accettata.
Cominciamo con il dire che l’ora successiva è stato un salto nel passato, più legato ai ricordi di vecchi film di spie che a varie realtà storiche.
Come mi spiega Rehza,la mia guida, quando gli studenti riescono ad entrare finalmente al piano rialzato, scoprono essere sostanzialmente divisa in due parti ben differenziate: una è quella destinata ai dipendenti dell’ambasciata mentre la seconda si rivelerà essere il quartier generale della C.I.A., il servizio segreto americano, per tutto il Medio Oriente.
Le tre ore passate con la porta blindata chiusa servivano a prendere tempo e distruggere più documenti possibili e danneggiare irrimediabilmente apparecchiature di trasmissione e codificazione di messaggi che venivano scambiati con altre divisioni se non addirittura con la sede centrale negli USA.
Questo non è certo un particolare trascurabile. Diciamo pure che la scoperta ha fatto incazzare non poco gli iraniani, che da quel giorno soprannomineranno la oramai ex ambasciata “Den of espionage” (traducibile con Il covo delle spie). Nonostante l’impegno degli americani, in fasi successive gli studenti cominciarono a riunire le sottili striscioline di carta (solo i documenti considerati più importanti furono letteralmente ridotti in polvere) arrivando a pubblicare in cinque anni più di 60 libri contenenti dati sensibili riguardanti l’attività della C.I.A., dal Medio Oriente fino agli studi sulle postazioni missilistiche russe.
Vi posso assicurare che il tour all’interno di quelle stanze, tra apparecchiature che oggi potrebbero far apparire ultratecnologico il vostro tostapane, ma che all’epoca erano avveniristiche, lascia il visitatore a bocca aperta. Una camera blindata in cui venivano codificati i messaggi in entrata ed uscita, con entrata temporizzata, riconoscimento di impronte e pressione, mi ha lasciato decisamente allibito.
La mia guida inoltre, ha fatto tutto quello che non mi sarei aspettato; preciso, quasi impersonale, ha evitato in tutte le maniere di fare propaganda pro Iran. Si è limitato ad esporre fatti e a mostrare prove a sostegno delle spiegazioni che mi stava dando. L’unico dubbio è nato quando ha voluto precisare che tutti gli ostaggi sono stati trattati come ospiti e non come criminali provenienti da un paese invasore.
La foto di americani sorridenti sotto un albero di Natale che accolgono i volontari della Croce Rossa Internazionale arrivati per festeggiare con loro (magari anche per controllare le condizioni di salute, ma Rezha non accenna a questo particolare) stride abbastanza con testimoniane post liberazione che parlano di una condizione di prigionia sostanzialmente decente, ma con vari episodi di angherie come privazione del sonno, sveglia nel mezzo della notte con acqua ghiacciata e minacce fisiche varie.
Dove la verità stia non è mio compito deciderlo, ma se vi capitasse di visitare Teheran, questo è un luogo da non perdere.
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