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Zhangye ovvero Tra Buddha dormienti e montagne colorate

Appena si mette il naso fuori dalla stazione di Zhangye (e nel mio caso succede molto prima del resto del corpo), ci si rende conto che la Cina orientale è oramai alle spalle; paesaggio molto meno lussureggiante, temperature molto più fresche ma soprattutto si respira aria pulita.

La città di per sé è anche piccola per gli standard cinesi (conta poco più di un milione di abitanti) e data la gran quantità di terra disponibile sembra che nessuno voglia pestarsi i piedi, quindi gli spazi stessi del centro sono molto più ampi e i ritmi sembrano decisamente rilassati, avendo la città davvero poco da offrire ai turisti; basterebbe osservare dove le vie principali si incontrano: una rotonda  nel cui centro si erge maestosa, si fa per dire, una statua di Marco Polo.

 

Vi assicuro che non l’avrei mai riconosciuto se non me lo avesse additato una commessa di un negozio di frutta e verdura, tutta contenta di poter mostrare con orgoglio ad un italiano che loro, alla storia, ci tengono (sembra che Marco Polo sia vissuto in questa città per circa un anno). Vista la passione della ragazza mi sembrava indelicato dirle che quel pezzo di marcantonio è ben lontano dai ritratti che in Europa amiamo attribuire al noto veneziano, quindi ho partecipato alla sua felicità in maniera convinta, ma non ho ottenuto nessuno sconto sulle albicocche.

A dire il vero sono stato piuttosto ingrato con Zhangye, ma ho voluto trasmettervi le prime impressioni avute subito dopo aver lasciato gli zaini in ostello ed essermi messo a gironzolare per il centro cittadino in attesa del tour per il “piatto forte” della giornata con l’umore piuttosto nero, dello stesso colore delle nubi in cielo che già avevano innaffiato abbondantemente il terreno e minacciavano una pesante replica, cosa che avrebbe fatto, nel vero senso della parola, naufragare i miei piani per la giornata.

Mi sono quindi pigramente diretto verso il tempio di Dafo, che le guide mi indicavano come principale attrazione della città ma consiglio per chi dovesse recarsi in zona di fare attenzione, in quanto ho girato attorno all’entrata dello stesso per circa un quarto d’ora perché era questa così anonima che si è rivelata proprio difficile da trovare (immagino che anche la mia incapacità nel comprendere gli ideogrammi cinesi incisi a caratteri cubitali sulla soglia abbia avuto il suo peso, ma sono sottigliezze).

Pagato il biglietto ero ancora un po’ scettico ma mi sono dovuto ricredere alla svelta. Il tempio principale si presenta subito come la prima parte del complesso e quello che è al suo interno è tuttora una delle cose create dall’uomo più intimamente toccanti che abbia visto in questa parte del globo.

Il tempio di Dafo, costruito nel 1098 d.C., ha cambiato nome più volte nel tempo, ma il Buddha Dormiente al suo interno è sempre rimasto al suo posto. La statua,  lunga 34.5 è la rappresentazione del Buddha dormiente al coperto più grande della Cina, composto da un’anima di legno poi ricoperta d’argilla. Se non si viene colpiti dalla maestria degli artigiani che hanno lavorato alla sua costruzione, sicuramente lo farà l’ambiente in cui essa è ubicata.

 

Il tempio di per sé è infatti male illuminato e quasi polveroso, ma proprio questi particolari rendono l’atmosfera davvero molto coinvolgente: circa trenta statue (anch’esse di legno e argilla) tra cui dieci discepoli che sorvegliano il sonno eterno del Buddha, sono posizionate tutt’intorno ad esso con sullo sfondo affreschi sbiaditi che sembrano quasi uscire dalle pareti per rendere la scena che si presenta agli occhi del visitatore  unica ed indissolubile. In una giornata con pochi turisti, rilassare il corpo e far viaggiare la mente diventa quasi naturale.

 

Altre costruzioni  presenti meritano di essere visitate: la Buddhist Classic Hall che ha al suo interno una bella collezione di antichi sutra buddhisti, la Pagoda di Argilla e la Sala delle Corporazioni (Shanxi Guild Hall), quest’ultima costruita nel  1724 durante il perido Quing e al cui interno è presente un palcoscenico in legno in ottimo stato di conservazione.

Avendo speso molto più tempo del previsto all’interno del tempio mi sono trovato a correre all’ostello nel tentativo di non perdere il passaggio per il sito che mi aveva attirato in questa zona, il Danxia National Geological Park.

Situato a circa 35 km di Zhangye, questo parco che si sviluppa su circa 300 km2 è una meraviglia geologica praticamente unica al mondo.

Le incredibili colorazioni di queste rocce, alcune  scoscese e taglienti altre dalle forme più “morbide” ed arrotondate, sono date da depositi di arenaria rossa e minerali modellate dalla forza costante di vento, acqua e dalla pressione causata dall’incontro di placche tettoniche, le stesse in parte causa dell’elevazione della catena himalayana.

Il viaggio durato circa una mezz’ora nel “giorno più brutto dell’ultimo mese” (parole del nostro autista) non mi ha assolutamente preparato a quello che avrei visto di lì a poco. Prima di arrivare al Parco del Danxia infatti, le montagne seppur non anonime non presentavano quei colori, quelle stratificazioni uniche presenti nelle fotografie famose in tutto il mondo. Mi sono trovato a sperare intensamente che non fosse tutto merito di elaborate post produzioni effettuate al computer.

Entrato nel parco i miei dubbi sono stati fugati velocemente. Il tour dell’area avviene tramite l’utilizzo di minibus che portano i visitatori a quattro piattaforme di osservazione differenti , in quanto le formazioni rocciose visibili sono effettivamente molto diverse l’una dall’altra. Seppur moderatamente contento di quello che stavo vedendo,  sentivo che non ero pienamente soddisfatto, probabilmente anche a causa del tempo che, seppur migliorato, non stava certo aiutando.

Il colpo di scena è arrivato con l’ultimo punto d’osservazione.

Salita una ripida scala costruita su di una brulla collina, il panorama si è svelato in tutto il suo splendore; tutt’intorno a me lunghe linee colorate si inseguivano fino a dove l’occhio ne poteva percepire la presenza.

I colori vividi, quasi brillanti pur data l’assenza di sole, mi hanno indotto a chiedermi per quale motivo la gente senta il bisogno di rafforzarli in maniera artificiale. Blu, giallo, bianco e rosso. Un’esplosione di vita in un ambiente che dovremmo invece definire “morto”.

 

Un geologo potrebbe spiegarvi in maniera razionale il processo che ha portato alla creazione di questo fenomeno, ma io non ho potuto far altro che fermarmi ad osservarlo e goderne, in silenzio.

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